Aeroporto di Heathrow, Londra
Non c’era ragione al mondo per cui Khalid dovesse svegliarsi. Il suo corpo era sfinito e devastato dal dolore al punto che una persona normale sarebbe entrata in coma per almeno ventiquattro ore. Ciononostante, qualcosa lo fece tornare cosciente, qualcosa che era riuscito a filtrare attraverso la spessa coltre di dolore, stanchezza e sedativi e che stava strappando la sua mente da quella pace beata.
Tenne gli occhi chiusi e lentamente, troppo lentamente, anche gli altri sensi cominciarono a trasmettergli informazioni. Passò almeno un minuto prima che si rendesse conto che non c’era il sottofondo confortante del ronzio dei motori del jet e che non percepiva nessun movimento, neanche le piccole inclinazioni del pilota automatico per bilanciare il carico.
Sorpreso, guardò fuori dal finestrino aspettandosi di vedere il cielo e le onde di sabbia del deserto del Sahara che scorrevano sotto l’aereo, e invece vide il terminal e gli hangar per la manutenzione. Oltre l’enorme spazio aperto delle rampe che conducevano alle piste di decollo, vide una fila interminabile di aerei di ogni colore parcheggiati uno dietro l’altro come gli elefanti di un circo. Il sole era semicoperto da nuvole grigiastre sospese a mezz’aria che lasciavano passare solo qualche raggio slavato.
Khalid si voltò verso la sua vicina, un donnone che lavorava febbrilmente al computer portatile, con le unghie curate e impeccabili che picchiettavano veloci sulla tastiera. Intuì che la donna stava cercando disperatamente di far finta di non accorgersi che lui era sveglio. Considerato lo stato pietoso in cui si trovava, non poteva certo biasimarla.
“Mi scusi, ma mi sono addormentato subito dopo l’imbarco. Come mai siamo ancora a terra?” Chiese ansioso, sfoderando un perfetto e snob accento inglese.
Lei si girò verso di lui con disgusto e sospirò. Cominciò a parlare come se dovesse pagare di tasca sua ogni parola che diceva, come se gliene fossero state concesse solo un numero limitato e non volesse sprecarne neanche una per lui. “Per quel che ho capito, siamo in ostaggio.”
Ostentò l’innaturale nonchalance di una donna che pensava che per farcela in un mondo di uomini doveva reprimersi al punto di trasformarsi in un automa.
“Cosa?” Khalid sentì il cuore sprofondargli nel petto.
La donna salvò il file a cui stava lavorando e si voltò a guardarlo, parlando lentamente come se lui fosse un idiota. “Dei terroristi hanno in pugno Heathrow e hanno imposto di bloccare tutti i decolli e tutti gli atterraggi, altrimenti faranno saltare le bombe che hanno lasciato in giro per il terminal e probabilmente anche a bordo di qualche aereo.” Parlava con una calma che rasentava l’assurdo. Khalid stentava a credere a quello che stava sentendo.
“All’inizio i piloti hanno tentato di farci credere che si trattava di un guasto meccanico al radar” continuò. “Ma poi ho notato che per un’altra ora gli aerei hanno continuato ad atterrare e ho capito che non era vero. L’ho fatto notare alla hostess, e dopo un paio di passaggi tra me e il pilota, un uomo orribile, devo dire, lui ha comunicato ai passeggeri come stanno realmente le cose. Al terminal 4 è esplosa una bomba che ha ucciso due persone. Finora la sicurezza non ha ancora trovato altro esplosivo.
“Secondo me è una bufala.” Adesso che la donna aveva deciso di parlare, non c’era modo di fermarla. “Sarà sicuramente un pazzo, straniero senza dubbio, che cerca di cavalcare l’onda dell’attentato del British Museum di ieri sera. Come ha scritto Melville in Moby Dick, i folli generano altri folli. Un terrorista compie un attentato e immediatamente tutti gli altri vogliono unirsi alla festa. Immagino che dopo Lockerbie i responsabili prendano ogni genere di precauzione, per quanto scomoda.”
Khalid era sconvolto da quella donna coriacea. Due persone erano morte e lei si preoccupava della scomodità della situazione. Non avrebbe mai capito gli occidentali, ed era grato per questo. Guardando il suo orologio e cercando di ricordare l’ora prevista per il decollo, si rese conto che non riusciva a calcolare da quanto tempo erano bloccati a terra. Lo chiese alla donna.
“Sono quattro ore” disse lei lamentandosi dopo aver guardato il suo orologio incastonato di diamanti.
La mente di Khalid si stava schiarendo e riusciva a pensare con lucidità almeno per un breve tempo. Il dolore alla schiena e alle spalle era sordo e costante e riusciva quasi a ignorarlo. Attirò l’attenzione di un assistente di volo che passava e gli chiese “C’è un motivo preciso per cui non possiamo scendere dall’aereo?”
“Mi dispiace, signore, ma questa è una delle richieste dei terroristi. Nessuno degli aerei in attesa di decollare ha il permesso di muoversi. Dopo il primo comunicato ne hanno diffuso un secondo in cui dicevano che se un aereo cercava di spostarsi o di far scendere i passeggeri avrebbero fatto esplodere tutte le bombe piazzate simultaneamente. Hanno detto che stanno tenendo d’occhio l’aeroporto. Mi dispiace, signor Khuddari, ho saputo quello che le è capitato. C’è niente che posso fare per lei? Credo che abbiamo solo un antidolorifico piuttosto blando, ma forse gradisce qualcosa da bere?”
“No, grazie. Per adesso non voglio niente” disse Khalid.
Per la prima volta in vita sua ebbe la tentazione di infrangere i dettami del Corano e di bere qualcosa di alcolico. Non tanto per alleviare il dolore, quanto per anestetizzare la certezza che Rufti avrebbe vinto.
Khalid capì che quel grassone bastardo doveva aver intuito che lui stava cercando di tornare negli Emirati. Probabilmente lo aveva fatto seguire dall’ospedale. Non osava pensare alle conseguenze per Trevor e Millicent se Rufti avesse scoperto che lo avevano aiutato. Erano entrambi in grave pericolo, e considerando che lui aveva dormito per quattro ore, quasi certamente era troppo tardi per aiutarli.
Khalid mise da parte le sue preoccupazioni per i due innamorati, e cercò di valutare qual era la posta in gioco. Di sicuro Rufti stava tornando negli Emirati e una volta arrivato avrebbe immediatamente messo in atto il suo piano per rovesciare il governo. In quel momento il principe era vulnerabile, intrappolato tra il mantenimento dei buoni rapporti con gli Stati Uniti e la militanza delle forze più reazionarie all’interno del Golfo, nemici antichi resi capricciosi dai mutamenti della scacchiera planetaria del petrolio.
Rufti avrebbe potuto impossessarsi degli Emirati con una tale facilità che i media internazionali lo avrebbero definito un golpe “pacifico”. E allora l’Iraq e l’Iran si sarebbero fatti avanti e il Golfo sarebbe crollato sotto una rigida dittatura. Usando l’arma economica del petrolio, la cospirazione avrebbe messo in ginocchio l’Europa, l’Asia e l’America nel giro di poche settimane.
“Mi serve un telefono.” Khalid non si rese conto che aveva pensato ad alta voce fino a quando la donna che gli era seduta accanto non lo guardò con un’aria piuttosto strana.
Chiamò di nuovo la hostess e le spiegò che aveva necessità di fare una telefonata molto importante. Lei rispose molto seria che non era consentito l’uso dei telefoni quando il velivolo era a terra. Le autorità temevano che le interferenze elettroniche come quelle delle radio e dei cellulari potessero far saltare i detonatori.
“Non ci sono altri esplosivi, glielo assicuro. Mi serve immediatamente un telefono.”
Lei scosse di nuovo la testa e si allontanò.
“Almeno mi faccia parlare col comandante” chiese risentito.
Con maggiore agilità di quanto si sarebbe aspettato, si alzò dal sedile e si trovò faccia a faccia con la giovane hostess.
“Mi dispiace, signor Ministro, ma non è possibile” rispose cercando di mostrarsi irremovibile davanti all’insistenza di Khalid.
“Oh, insomma!” gridò. Lei indietreggiò silenziosamente mentre Khalid si avviava nel corridoio con un passo pesante come quello di Frankenstein. La rigidità imposta dalle ferite gli aveva azzerato la coordinazione.
Cedendo davanti al suo status di Ministro, lei lo condusse nella cabina di pilotaggio. I membri dell’equipaggio sedevano impettiti nelle loro candide camicie inamidate con la cravatta nera e i pantaloni stirati, e nonostante la loro impotenza avevano un’aria importante. Il comandante, un uomo con i capelli bianchi, un’abbronzatura invidiabile e uno sguardo pacifico, si voltò per vedere chi osava intrufolarsi nel suo sancta sanctorum. Quando vide Khalid vestito malamente con le cicatrici ancora fresche sul volto e sulle mani, strinse le mani sulla cloche dell’aereo.
“Comandante Darson” disse la hostess con un tono formale, “questo è il Ministro Khuddari, il passeggero salito a bordo all’ultimo momento.”
Darson continuò a scrutare Khalid da dietro un velo di sospetto. “Signor Ministro, cosa posso fare per lei?”
“L’attentato in aeroporto aveva lo scopo di ritardare il mio rientro, comandante. Non ci sono altri esplosivi e non c’è nessun complotto terroristico. Un mio rivale sta cercando di rovesciare il mio governo, e io sono l’unico a essere al corrente delle sue intenzioni. Con il blocco dell’aeroporto e di questo volo in particolare potrebbe riuscire a strappare il potere al nostro legittimo governante.” Parlare in modo chiaro e deciso gli costava un’enorme fatica e la sua mente stava ricominciando ad annebbiarsi.
“Devo dedurre che lei desidera lasciare l’aereo?”
“Sì, signore, e se questo non è possibile, le chiedo almeno di farmi fare una telefonata e lanciare un allarme.”
“Comprendo la sua situazione, signore, ma lei deve comprendere la mia. Ho ricevuto ordini molto rigidi di non usare le radio fino a quando le autorità non avranno stabilito che non ci sono più bombe all’interno dell’aeroporto o su nessuno degli aerei. Nonostante quello che lei sta dicendo, il governo ha preso molto seriamente questa minaccia, considerando anche quanto è accaduto ieri sera al British Museum.”
“Comandante, ero io l’obiettivo di quell’attentato, stavano cercando di uccidere me, non capisce? Questo” disse indicando con il braccio ciò che si vedeva attraverso il parabrezza, “questa messinscena serve solo a far ritardare la partenza di una persona, e cioè il sottoscritto.”
“Mi dispiace, ma ho le mani legate. L’antiterrorismo finirà i controlli nel giro di qualche ora. Devono usare tutte le cautele nell’eventualità che i terroristi abbiano effettivamente il controllo dell’aeroporto. Mi accerterò che lei lasci l’aereo non appena avranno finito i controlli. Mi dispiace, ma è il massimo che posso fare.”
“Non è abbastanza” gridò Khalid. Il copilota si alzò di scatto muovendosi verso di lui con modo di fare aggressivo e si capiva che era deciso ad allontanarlo. Khalid capì che non avrebbe ottenuto niente e si lasciò condurre fuori dalla cabina.
La hostess lo riaccompagnò al suo posto. Khalid si sedette, con la mente che galoppava furiosamente non solo per il dilemma in cui era coinvolto, ma anche per il dolore che lo stava assalendo di nuovo. Doveva assolutamente scendere dal Boeing, contattare il colonnello Bigelow e dirgli di avvisare il principe. Niente altro importava.
Si accasciò sul sedile, con la testa tra le mani, sopraffatto dal senso di sconfitta. Nonostante la sua resistenza erculea, i suoi sacrifici e la sua energia, Rufti avrebbe avuto la meglio. Non aveva altra scelta se non rimanere seduto in prima classe ad aspettare che il suo paese venisse distrutto da un pazzo assetato di potere.
Puro inferno. Khalid si trovò a muoversi ancor prima di rendersi conto di cosa stava facendo.
La porta principale dell’aereo era a non più di due metri. Si avviò in quella direzione, scavalcando la sua attonita vicina e ignorando le sue proteste. Con la coda dell’occhio vide una hostess quasi in fondo all’aereo che lo guardava, ma non si rese conto della situazione fino a quando non vide la mano di Khalid che afferrava la maniglia della porta pressurizzata. Gli gridò di fermarsi, lasciò cadere una pila di coperte in braccio a un passeggero e si precipitò verso di lui.
Un altro assistente, l’unico uomo, sporse il suo faccino da fotomodello da sotto la cappelliera, spalancando gli occhi nel vedere quel passeggero malandato che sollevava la maniglia.
Con la poca forza che gli restava, Khalid tirò la maniglia e ruppe il sigillo. La porta, perfettamente bilanciata grazie all’ottimo lavoro degli ingegneri della Boeing, si aprì agevolmente ripiegandosi su se stessa e lasciando un’ampia apertura sulla libertà. I passeggeri terrorizzati cominciarono a urlare e alcuni si alzarono dai loro posti per precipitarsi correndo verso la coda dell’aereo, temendo che Khalid fosse uno dei terroristi. Altri lo guardarono sconvolti mentre si accingeva a saltare sull’asfalto.
Lo steward si tuffò per cercare di afferrare gli abiti di Khalid mancandolo di qualche centimetro e stringendo l’aria. Dovette aggrapparsi al telaio della porta per non cadere fuori dietro a Khalid.
Per un istante brevissimo, mentre cadeva da più di tre metri di altezza, la mente e il corpo di Khalid furono di nuovo una cosa sola, entrambi apparentemente privi di peso, alla deriva nel vuoto. E poi colpì l’asfalto, ripiegando completamente le gambe e con la testa che picchiò per terra come un melone. Lasciò il corpo completamente rilassato, non pensando neanche per un secondo di irrigidirsi per reggere l’impatto.
Steso sulla pista, sentiva le grida di protesta dell’equipaggio. Non avevano alcun significato per lui, era libero. Poteva chiamare Bigelow, far finire quella sceneggiata e riportare la stabilità in Medio Oriente. Mentre cercava di alzasi, si rese conto che non riusciva a muoversi. Le sue gambe riposavano in pace mentre la sua mente ordinava loro di muoversi, sollevarlo e portarlo via. Con un senso di nausea, si ricordò di aver sentito un rumore secco quando aveva colpito il suolo, come quello di un ramo spezzato dal vento. Era sicuro di essersi rotto la schiena nella caduta. La pancia del Boeing 767 era sopra di lui come il ventre di una balena gravida, così gonfia che quasi toccava terra. Cercò di rotolare sotto la curva dello scafo, ma non riusciva a muoversi.
Si avvicinò un camion cisterna con le fiancate insignite con il logo di un’azienda che si occupava degli scarichi fognari e si fermò sotto lo scarico del Boeing. Tre uomini dall’aria molto esperta saltarono giù dal camion e incastrarono un pesante tubo di gomma nella pancia dell’aereo, mentre segretamente altri quattro uomini si calarono da sotto il camion e si precipitarono verso Khalid. A quei SAS, i militari delle Forze Speciali del Regno Unito, i migliori combattenti del paese, bastò un’occhiata per capire che se spostavano Khalid rischiavano di ucciderlo. Tuttavia, avevano ordini specifici di controllare ogni singolo velivolo presente in pista esaminando ogni situazione sospetta e trasmettere poi un resoconto al terminal.
Ogni secondo in cui l’aeroporto rimaneva chiuso costava decine di migliaia di sterline e quanto più in fretta riuscivano a metterlo in sicurezza, quanto più rapidamente quel tassametro si sarebbe fermato. Due uomini afferrarono Khalid da sotto le ascelle e lo portarono sul camion che usavano come copertura. Avevano avuto ordine di controllare altri quattro aerei prima di rientrare al terminal, ma con Khalid che poteva essere un sospettato, il sottufficiale incaricato decise di tornare immediatamente alla base.
Quattordici minuti dopo, Khalid Khuddari venne depositato quasi cadavere in un ufficio spoglio all’interno del terminal, con due teste di cuoio di guardia nella stanza insieme a lui. Passarono altri dieci minuti prima che Geoff Wilberforce entrasse in quella stanza, con le palpebre così pesanti che quasi gli coprivano gli occhi. Il suo volto abitualmente florido era livido e coperto di chiazze rossastre. In ventotto anni di gestione dell’aeroporto quello era il giorno peggiore della sua vita e stava cercando qualcuno a cui dare la colpa. A ragione o a torto, non aveva importanza. Non aveva intenzione di prendersi quel peso sulle spalle.
“Ehi!” disse Wilberforce, dando uno schiaffo a Khalid che giaceva disteso su un tavolo di metallo nell’ufficio mezzo vuoto. “Svegliati, o crepa!”
Aveva il corpo massacrato al di là di ogni possibile sopportazione, e la mente tesa al punto che ogni pensiero rimbalzava su se stesso. Khalid aprì faticosamente gli occhi e allungò la testa per guardare Wilberforce. Aveva un espressione ebete e senza vita e il suo volto era una maschera di dolore, ciononostante riuscì a catturare Wilberforce con l’intensità del suo sguardo, penetrante e vivo.
“Ho bisogno di un telefono” disse rantolando.
“Lo avrai” disse Wilberforce sadico, “tra una cinquantina d’anni, quando uscirai di galera. Il terrorismo internazionale è l’unico crimine che viene preso sul serio in questo paese, e tu ti beccherai una bella botta, amico. Il tuo compare non doveva uccidere quella ragazzina e quel prete. Grave errore.”
“Sono io l’obiettivo.” Disse Khalid con un filo di voce. Tentò di prendere il passaporto per farsi riconoscere, ma le forze lo avevano ormai abbandonato.”Volevano me.”
“Raccontalo al giudice, arabo bastardo.”
Un’ambulanza della polizia portò via da Heathrow Khalid Khuddari percorrendo a sirene spiegate la strada verso Londra. Era stato sedato da due infermieri, veterani di molti tra i peggiori disastri accaduti in Inghilterra. Nessuno di loro riusciva a credere alla voglia di lottare di quel paziente. Fino all’ultimo istante prima che la nuova dose di farmaci lo stendesse del tutto, Khalid continuò a chiedere un telefono e a cercare invano di spiegare chi era.